Psicologia: genitori che si mettono in discussione per il bene dei figli
(di Rossana Raso, psicoterapeuta)
Essere genitori non solo è complicato, ma è una responsabilità grande. Parole, gesti, atteggiamenti, modi di essere e di fare hanno un peso e un riflesso sui nostri figli.
Non che siano circostanze isolate o singoli avvenimenti contenuti a giocare un pesante e duraturo impatto, ma lo gioca ciò che si ripete, che si consolida, che ha ridondanza o carica potente.
Non esperienze e legami da soli a determinare lo strutturarsi certo e deterministico di un individuo, ma questi svolgono un ruolo di primo piano e concorrono ad orientare le nostre dotazioni di base.
Si oscilla a volte dall’additare i genitori, al sollevarli da ogni responsabilità, ma sono gli estremi a non andare bene. Non si possono incolpare mamme e papà per ogni singola difficoltà, marachella, ferita, guaio o mancanza della prole, perché sarebbe come negare l’esistenza di soggettività, individualità e possibilità di scelta; ma non si può nemmeno far finta che lo stile genitoriale, l’esempio e la relazione non abbiano effetti. In un articolo precedente, parlavo del bisogno d’amore che in un modo o nell’altro ci guida. Questo e/o la sperimentazione della sua mancanza avranno poi un ruolo nel modo parentale di ognuno.
Potrà risultare in un calco di quanto vissuto oppure in un ribaltamento opposto, in un ennesimo tentativo di lenire le proprie ferite o in una nuova relazione da cui guardarsi e proteggersi, ma ancora una volta ci saranno collegamenti sotterranei. E questi rischiano di continuare a passare in una certa qual forma da una generazione all’altra, se non ci sarà consapevolezza, mediazione o una risorsa riparatrice interveniente.
Essere genitori ci espone inevitabilmente al come siamo stati figli. Non si tratta di un processo consapevole e razionale, ma affacciarsi alla genitorialità riapre cassetti, ricordi, sensazioni, ferite, potenzialità, risorse di ciò che è o non è stato. A volte questo porta a ripetere la storia in maniera identica, altre a ribaltarla, altre ancora (se siamo resilienti e riusciamo a mediare consapevolmente in ciò che ci accade) a farci forza e scudo tramite “la trasformazione in positivo” di ciò che è avvenuto.
Vivere certi eventi, traguardi, sfide, difficoltà con i nostri figli ci conduce a confrontarci con ciò che in passato abbiamo “subito” da figli. La misura in cui è stato qualcosa di metabolizzato o con cui siamo scesi a patti ci permetterà di superare la situazione. Ma nell’eventualità in cui la storia non sia stata positiva o in seguito elaborata, lo scontro con demoni e fantasmi che ci getteranno nella difficoltà, nel rischio di ripetere o nel rifiuto e nella riattivazione, sarà potenzialmente in agguato. Anche per questo la genitorialità può portare con sé crisi, sconforto, frustrazione, dolore, problematicità. Ma non sempre è facile riconoscerlo, a sé stessi prima di tutto e con gli altri poi. È necessaria una bella dose di coraggio e di forza per dirsi che si sta facendo fatica e che qualcosa sta tornando in superficie.
È necessaria una bella dose di coraggio e di forza per dirsi che si sta facendo fatica come genitori e che qualcosa sta tornando in superficie.
Avere la fermezza di guardare la difficoltà negli occhi e di cercarne il bandolo è il primo e più importante passo per affrontarla e superarla, per non essere più condizionati da qualcosa di seppellito e rendersi invece risorse di cambiamento per sé stessi e per i propri figli.
Spesso facciamo errori nei nostri modi di rapportarci, insegnare, dare l’esempio, curarci dei figli ed accompagnarli verso l’indipendenza, ne facciamo molti e questi possono lasciare segni profondi e ferite che faranno fatica a rimarginarsi. Non è però tutto perduto, la riparazione è possibile fintanto che lo sono il dialogo, la messa in discussione, il chiarimento (o tra le parti o all’interno della persona stessa). Sì perché, in mancanza di alternative, l’elaborazione è possibile anche in assenza degli attori che hanno preso parte alla situazione originaria.
Quante volte nei film, nei libri o nella vita reale ci è capitato di pensare o sentire la frase «io non sarò mai come i miei genitori» o «io non mi comporterò mai come loro». Che sia in riferimento a una genitorialità a venire o al modo di affrontare la vita, queste frasi presuppongono almeno quattro questioni: un riconoscimento critico di un comportamento o di un modo di essere a nostro avviso non opportuno; una presa di coscienza dell’impatto deleterio su noi stessi di quest’ultimo; la volontà di porre fine alla catena di trasmissione dello stesso; la capacità di riflettere e porre in questione cognitivamente ed emotivamente qualcosa che ci turba o ci ha turbati.
Succede poi a volte che, per svariate ragioni, tutto ciò cada tuttavia in secondo piano e non si traduca in reali prese di coscienza, lavoro su di sé e sulla propria storia e ricerca di perseguire il cambiamento. Una preziosa epifania del genere non dovrebbe però essere messa a tacere. Non per una mera volontà colpevolizzante dei propri genitori o una pretesa di essere narcisisticamente migliori, ma perché un riconoscimento di ciò che abbiamo provato, un contatto reale con esso ed un tentativo di maneggiarlo e lavorarci sopra, è utile a noi stessi oltre che alle generazioni a venire.
Noi genitori abbiamo la responsabilità di provare a metterci maggiormente in discussione, se non per noi stessi almeno per i nostri figli, guardarci allo specchio più obiettivamente per tentare di migliorarci e non passare loro le nostre stesse difficoltà, brutte abitudini o ferite. Per permettere loro di essere più sereni di ciò che è stato possibile a noi e per dar loro risorse che forse avremmo voluto per noi. Non parlo di realizzarci attraverso loro, assolutamente, ma di permettergli di non essere schiacciati a loro volta da ciò che non abbiamo potuto combattere noi. E, ancora una volta, se sostenere lo sguardo da soli allo specchio è troppo arduo, tendiamo la mano e cerchiamo qualcuno che la afferri e ci sorregga nel farlo.
(Rossana Raso, psicoterapeuta)
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