Pfizergate, sotto accusa il sistema di potere di von der Leyen
Roma, 17 mag. (askanews) – Il New York Times ha festeggiato “una vittoria per la trasparenza e la responsabilità nell’Ue” ma in realtà non in pochi, a Bruxelles, nel chiuso degli uffici, hanno sorriso di soddisfazione per la ‘condanna’ della Commissione europea sul cosiddetto Pfizergate. Lo scorso 14 maggio, Il Tribunale di primo grado della Corte europea di Giustizia ha annullato, con una sentenza emessa a Lussemburgo, la decisione con cui la Commissione ha negato a una giornalista del New York Times l’accesso ai messaggi Sms scambiati tra la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e l’amministratore delegato di Pfizer, Albert Bourla, tra il primo gennaio 2021 e l’11 maggio 2022, riguardo ai vaccini anti-Covid.
Intendiamoci, in dubbio non è l’azione della von der Leyen per acquisire il più rapidamente possibile i vaccini in quella fase difficile e concitata: quello è stato sicuramente un successo della Commissione. La questione è l’accentramento quasi ossessivo della leader tedesca e del suo staff, che comporta mancanza di collegialità nelle scelte, anche con gli stessi commissari, e un deficit di trasparenza. “E’ un duro colpo per il sistema von der Leyen – sottolinea una fonte diplomatica -. Un sistema basato su decisioni in sedute ristrette, con i funzionari fedelissimi, scavalcando ruoli e competenze”. Una tendenza che si è vista anche nella fase di formazione dell’attuale esecutivo comunitario, con un rimescolamento delle Direzioni che ha l’obiettivo di sottrarre competenze e poteri ai commissari, a tutto vantaggio della presidente.
La giornalista americana Matina Stevi, basandosi sul regolamento Ue relativo all’accesso ai documenti, aveva chiesto di visionare tutti i messaggi Sms, ma la Commissione aveva respinto la domanda affermando di non essere in possesso dei documenti. Il New York Times aveva quindi fatto ricorso al Tribunale dell’Unione europea chiedendo di annullare la decisione della Commissione. Il Tribunale ha accolto il ricorso, ricordando che il regolamento relativo all’accesso ai documenti mira a dare la massima attuazione al diritto di accesso del pubblico ai documenti in possesso dalle istituzioni. In linea di principio, tutti i documenti delle istituzioni dovrebbero quindi essere accessibili al pubblico. In questo caso, il Tribunale ha osservato che le risposte fornite dalla Commissione nel corso dell’intero procedimento in merito ai messaggi di testo richiesti “si basano o su ipotesi, oppure su informazioni mutevoli o imprecise”. Per contro, la signora Stevi e il New York Times hanno presentato “elementi pertinenti e concordanti che descrivono l’esistenza di scambi, in particolare sotto forma di messaggi di testo, tra la presidente della Commissione e l’amministratore delegato di Pfizer nell’ambito dell’acquisto, da parte della Commissione, di vaccini presso tale società durante la pandemia di Covid-19”. Per il Tribunale, quindi, i ricorrenti “sono riusciti a superare la presunzione di inesistenza e di non possesso dei documenti richiesti”. In una situazione del genere, “la Commissione non può limitarsi ad affermare di non essere in possesso dei documenti richiesti, ma deve fornire spiegazioni credibili che consentano al pubblico e al Tribunale di comprendere perché tali documenti siano irreperibili”. Inoltre, il Tribunale nota che la Commissione non ha spiegato in dettaglio quale tipo di ricerche avrebbe effettuato per trovare i documenti in questione, né dove si sarebbero svolte, “non ha fornito spiegazioni plausibili per giustificare il non possesso dei documenti richiesti”, e non ha sufficientemente chiarito se i messaggi di testo richiesti fossero stati eliminati e, in tal caso, se l’eliminazione fosse stata effettuata volontariamente o automaticamente o se il telefono cellulare della presidente della Commissione fosse stato nel frattempo sostituito. Infine, la Commissione non ha neppure spiegato in modo plausibile perché ha ritenuto che i messaggi di testo scambiati nell’ambito dell’acquisto di vaccini contro il Covid-19 non contenessero “informazioni sostanziali o che richiedessero un monitoraggio”, ovvero le condizioni previste perché sia garantita la conservazione dei documenti.
La Commissione, in una nota, ha “preso atto” della decisione, sottolineando però che “il Tribunale non mette in discussione la politica di registrazione della Commissione in materia di accesso ai documenti. Tali norme mirano a garantire l’integrità degli archivi della Commissione e la piena trasparenza, assicurando che i documenti importanti, redatti o ricevuti dalla Commissione, siano facilmente accessibili ai cittadini dell’Ue interessati”.
Comunque sia, la sentenza non fa certo bene alla credibilità di von der Leyen. Che infatti si è trovata subito sotto attacco. “Durante la pandemia – accusa Paolo Borchia, capo delegazione della Lega al Parlamento europeo – sono stati firmati contratti per miliardi, vincolando le finanze pubbliche degli Stati membri. Chi ha gestito quelle trattative non può nascondersi dietro ai silenzi, né rifiutarsi di rispondere alle domande più legittime. Serve chiarezza su chi ha deciso, come e perché. La Lega continuerà a pretendere trasparenza e rispetto delle regole: nessuno è al di sopra della legge, neppure la Presidente della Commissione. Cos’hanno da nascondere?”
Pochi, d’altro canto, l’hanno difesa. Segno che sulla trasparenza il malessere è diffuso. Von der Leyen farà tesoro della lezione? Secondo The Good Lobby, “se l’Ue vuole difendere l’ordine basato sulle regole, deve dimostrare di non usare doppi standard. Il controllo pubblico dovrebbe estendersi a ogni livello del processo decisionale, persino al telefono del presidente. La sentenza potrebbe segnare una svolta nella trasparenza dell’Ue”.
Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli