Basket: i primi intensi 40 anni del Pont Donnas Paolo Preti
La società biancoverde ha festeggiato il compleanno speciale nel commosso ricordo di uno dei suoi fondatori
Il Pont Donnas Basket Paolo Preti ha tagliato il traguardo dei 40 anni dalla fondazione.
La ricorrenza è stata celebrata lunedì 2 giugno tra il palazzetto dello sport di Pont-Saint-Martin, dove al mattino ci sono stati i giochi per i tesserati del settore giovanile, e l’oratorio di Donnas, che ha ospitato il pranzo e le premiazioni.
Un lungo percorso, quello del club, punteggiato da successi, sacrifici, periodi piacevoli e momenti critici, come per tutti i sodalizi che durano nel tempo.
Il dramma di Paolo Preti
Con, in questo caso, il dramma di chi ne ha voluto per primo la nascita: il giovanissimo Paolo Preti, deceduto tragicamente in un incidente aereo, cui la società è giustamente intitolata.
La passione genuina e dirompente di Paolo ha contagiato tanti: il club ancora presente dopo quarant’anni è il suo lascito e questo anniversario è principalmente per lui.
Le testimonianze di alcuni tra i protagonisti ci introducono in una storia ricca di fascino e soprattutto di valori.
Il Pont Donnas 1991-1992, il giocatore con la canotta numero 11 è Paolo Preti
Gigi, il primo coach
Gigi Ceseracciu è stato il primo allenatore del Pont Donnas. È il legittimo titolare della memoria ed è lui a svelarci come e quando tutto nacque.
Ceseracciu, quarant’anni fa veniva fondato il club. Come avvenne, in una realtà piccola come Pont-Saint- Martin, che certo non vantava una tradizione nella palla a spicchi?
«È andata così: c’era un gruppo di ragazzi appassionati, capitanato da Paolo Preti, di grande volontà, ma senza riferimenti tecnici. Si allenavano nella palestra delle scuole medie del paese. Io ero appena arrivato a Pont e, venuti a sapere che ero un giocatore di basket, mi hanno contattato. Avevo il patentino di coach di serie C: diciamo che loro hanno messo l’entusiasmo contagioso e io la tecnica. Già in autunno eravamo iscritti al torneo Cadetti».
Da lì è iniziato il suo percorso nella società biancoverde.
«Ho preso dei ragazzi di 14-15 anni e li ho accompagnati per mano. Ho coinvolto una serie di persone e, in seguito, sono stato chiamato nel direttivo come vice presidente; il presidente era Renzo, il papà di Paolo. Intanto, la Federbasket mi ha chiamato a ricoprire il ruolo di delegato regionale».
Quali soddisfazioni ricorda maggiormente?
«Il campionato di Promozione, anche grazie a giocatori di Ivrea, che per noi è stato il salto di livello. I momenti in cui ci siamo strutturati per affrontare vari campionati. E il raduno di serie A per l’inaugurazione del nuovo palazzetto».
Cosa le ha lasciato quell’esperienza?
«L’ambiente bellissimo, l’affiatamento, lo spirito di squadra, l’affermarsi in una realtà che quasi non sapeva cosa fosse il basket. Non mi prenda per sentimentale, ma quel periodo me lo porto nel cuore e lì resterà. E sono contento nel sapere che l’attività prosegue, la fatica di allora è ampiamente ripagata. Oggi, tornato in Sardegna, sono presidente di una società di atletica e, in uno sport diverso, porto quei valori».
Max-1, il tuttofare
Massimo Libero Mangieri, per tutti semplicemente Max, significa trent’anni di sodalizio a vario titolo, diremmo a tutti i titoli. Tre decenni intensi che l’interessato ci consegna, con simpatica e trascinante veemenza.
Massimo, il suo è un cursus honorum completo.
«Giocatore, allenatore della prima squadra, dirigente e, per una ventina di anni, presidente, carica che voleva dire un po’ di tutto, compreso lavare gli spogliatoi e preparare le pettorine. Il Pont Donnas e il sottoscritto sono cresciuti insieme, basti dire che ho allenato un ragazzo e, in seguito, suo figlio: due generazioni».
Il “suo” Pont Donnas era votato a un credo preciso e sempre rispettato: l’inclusività.
«Proprio così, lo sport per tutti. Si dava una mano a chi, meno abbiente o in difficoltà per la perdita del lavoro, non poteva pagare la quota. Inoltre, siamo stati i primi a coinvolgere tantissimo i genitori, pure nelle trasferte: consideravamo positivo il fatto che i ragazzi li sentissero vicini, e tutti portavano qualcosa per il pic nic finale, che fosse la crostata o il panino. Una strada, in generale, con i pro e i contro, perché sappiamo che ogni tanto i genitori vogliono fare i tecnici, ma nel nostro caso hanno capito e interiorizzato la nostra filosofia. E, non certo per ultimo, l’approccio totalmente volontario, nessuno ha mai ricevuto compensi e ancora oggi siamo gli unici in Valle a pagare per l’utilizzo della palestra. Ecco, i valori per noi erano questi, altissimi».
Occorreva anche fare i conti con un bacino di potenziali atleti ridotto.
«Certo, la bassa Valle e le zone limitrofe non sono Aosta. Senza contare l’attrattività di altri sport, come la pallavolo, il tennis, le bocce, praticate anche dai giovani, non dimenticando lo sci e il calcio, lo sport nazionale».
Assenza pressoché totale di risorse, bacino ridotto. Come avete resistito?
«Abbiamo puntato sulla serietà, sulla professionalità e sul senso di appartenenza. E, poi, sul desiderio fortissimo di svolgere l’attività sportiva, a prezzo di tanti, e sottolineo tanti, sacrifici. Con l’apporto di persone insostituibili, come Cinzia Chevrère, impegnata su tutto, logistica, organizzazione, divise. Su tutto ciò abbiamo costruito la nostra credibilità».
Lei era presidente quando giunse la notizia della morte di Paolo Preti. Il suo ricordo?
«Paolo era un ragazzo solare, molto altruista e bravissimo, e non sono aggettivi di maniera che si usano per chi non c’è più. È stato lui a inventare il basket a Pont-Saint-Martin, grazie ad amici che coltivava nell’eporediese. Viveva per il basket e aveva anche il fisico perfetto per la disciplina. Ricordo benissimo quei drammatici momenti, li rivivo come fosse ieri. La sua storia non è incredibile, è agghiacciante, mi viene ancora la pelle d’oca. Paolo riesce a prendere la linea di una nota radio, fatto praticamente impossibile. Lo speaker gli pone una domanda, ma non sa rispondere. Il padre lo imbecca e Paolo vince un viaggio in Sudafrica. Si ammala di influenza, ma parte ugualmente. Non voleva partecipare all’escursione che gli sarebbe stata fatale sul Piper e infatti non aveva il biglietto. Una signora lo recupera da una ragazza che aveva avuto un’indisposizione e glielo consegna. Duecento metri di aereo ed è la fine. Chiamai io la Farnesina per la ferale notizia. Impressionante. Paolo resterà sempre nel mio cuore, un affetto che il tempo non ha cancellato e non cancellerà mai».
Max-2, l’attuale presidente
Anche Massimiliano Perozzi vanta una lunga esperienza, che dura tutt’oggi. E, anche per lui, diversi incarichi di natura variegata.
L’amore per il Pont Donnas deve veramente rapire.
Massimiliano, una sintesi della sua avventura al Paolo Preti.
«Sono giocatore nel 1993, quando vinciamo il campionato di Prima divisione. Posso dire di essere stato folgorato sulla via della pallacanestro. Conseguenti sono stati i corsi per istruttore minibasket e per allenatore delle giovanili. Il patentino per tecnico di prima squadra arriva nel 2015. Dal 2020 presidente, ma già da una decina di anni ero molto presente, impegnandomi anche negli aspetti amministrativi e organizzativi».
Cosa significa Pont Donnas per lei?
«La visione di una società che crede fortemente nell’utilità dello sport di squadra per la formazione dei giovani. I ragazzi sono al centro: conta la vittoria, ci mancherebbe, ma contano maggiormente l’attenzione alle loro esigenze, la loro crescita».
Attualmente, lei è chiamato a impersonare questi valori.
«E ne sono orgoglioso. Non nascondo che ci sono stati momenti critici, che ho condiviso molto spesso con Massimo Libero Mangieri, ma li abbiamo superati. Dagli 80 tesserati di qualche anno fa siamo passati a 110-120 e, soprattutto, la fascia media di età si è abbassata, segnale che ci seguono tanti bambini, che sono e saranno sempre la linfa della società. Mi piace rammentare che, nel nostro piccolo, abbiamo mantenuto tutte le categorie».
Riuscendo a togliersi notevoli soddisfazioni.
«Sì, nel 2006 e nel 2023 abbiamo vinto il campionato di Prima divisione. E ripeto, la base è il minibasket. A questo proposito, è difficile tenere i ragazzi dopo le scuole medie: chi si allontana per motivi di studio, chi per provarsi in un’altra realtà. Noi produciamo il massimo sforzo per tenerli con noi, sempre però rispettando i loro desideri e le loro ambizioni».
Buttiamo uno sguardo al futuro?
«Sono molto contento di ciò che abbiamo realizzato in queste lunghe stagioni. Arriverà il momento di passare la mano, come è logico che sia, a persone più giovani, con una nuova mentalità. Vedo un avvenire solido per la società, costruito sull’impegno e la serietà di quarant’anni di lavoro e di passione».
Luca, passione e longevità
Luca Torino è stato un giocatore longevo – in campo fino ai 42 anni – e oggi occupa il ruolo di responsabile tecnico.
Luca, il punto sul Pont Donnas di oggi.
«I numeri stanno crescendo e sentiamo la necessità di strutturarci con tecnici preparati. Non è facile proporre la pallacanestro soprattutto in una piccola realtà, ma il minibasket aiuta, grazie anche alla presenza nelle scuole. Mi piace sottolineare che la nostra è la società più longeva con Sarre, con tanto di prima squadra».
La filosofia cui lei si conforma è quella che mette al centro l’etica del lavoro.
«Noi puntiamo alla crescita non solo sportiva, ma personale dei ragazzi, ai quali rivolgo una frase che mi sta molto a cuore: voglio insegnarvi a raggiungere la migliore versione di voi stessi. Lo scopo è quello di educare alla responsabilità e all’autonomia attraverso il basket. Questi sono i valori fondanti e devo dire con una punta di orgoglio che il messaggio passa: i ragazzi fanno proprio il concetto di auto esigenza, si impegnano con serietà, lavorano sui punti deboli. Abbiamo anche una presenza femminile: poche ragazze, ma bravissime, con Isabelle Ruffino capitana nel torneo CSI, non solo atleta, ma un trait d’union tra parquet e società, sempre sul pezzo, che ha partecipato alla Giornata Rosa Nazionale. E voglio ricordare la nostra Cinzia, con doti rare di facilitatrice nel prezioso lavoro dietro le quinte».
Lei è stato protagonista degli ultimi 20 anni, regalandosi notevoli soddisfazioni.
«Ricordo in particolare la prima squadra del 2006, con giocatori come Pison, Coslovich, Domenighini, Formento, Renzulli, mio fratello Simone e io, per fare alcuni nomi, e quella del 2022, implementata con atleti di Aosta. Entrambe hanno vinto la Prima divisione. Io mi sento un po’ l’anello di congiunzione, da giocatore e capitano, poi da allenatore. Per un biennio ho militato nell’Eteila e sono tornato. Spero che i ragazzi di oggi, se faranno altre esperienze, mi imitino nella stessa parabola».
Sandro, lo storico coach
Sandro Cappellin ha vissuto l’epopea del Pont Donnas da tecnico per parecchi anni.
Sandro, un ricordo del periodo in bassa Valle.
«Sono partito con il minibasket, per approdare alla prima squadra. Ricordo quel periodo come un’esperienza stupenda. C’era un clima di collaborazione con un nucleo di famiglie coinvolgenti e coinvolte. Il bilancio è assolutamente positivo».
Oggi lei si occupa a Catania di soggetti svantaggiati in condizioni critiche, con la sua competenza di respiro psicopedagogico. Cosa si è portato dietro dall’esperienza al Pont Donnas?
«Mi occupo di giustizia minorile e di formazione in ambienti difficili. Mi porto appresso lo spirito di gruppo, l’affiatamento tra tecnici, atleti, famiglie, il credere nell’associazionismo. Rammento, in particolare, con grande piacere un ritiro di dieci giorni a Misano Adriatico. Non è vero che le famiglie rappresentano a volte degli ostacoli, basta che siano opportunamente coinvolte. L’esperienza al Pont Donnas la rifarei domani mattina, è stata meravigliosa».
(enrico formento dojot