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Costi politica: «Verosimiglianza non equivale a prova»

Costi politica: «Verosimiglianza non equivale a prova»

Così il gup del Tribunale di Aosta, Giuseppe Colazingari, ha motivato le assoluzioni dei tre esponenti di Stella Alpina, Dario Comé, André Lanièce e Marco Viérin, aggiungendo: «Non è dato affermare che si tratti di spese non pertinenti»

La verosimiglianza non equivale a una prova. Così il gup del Tribunale di Aosta, Giuseppe Colazingari, ha motivato le tre assoluzioni pronunciate nell’udienza del 28 aprile scorso in riferimento al secondo processo con rito abbreviato sulle presunte «spese pazze» dei gruppi consiliari di Alpe, Fédération Autonomiste, Pd, Pdl, Stella Alpina e Union Valdôtaine dal 2009 al 2012, nel quale è stato sentenziato che nessuna spesa effettuata dai consiglieri regionali Dario Comé, André Lanièce e Marco Viérin fu fatta «per fini personali».
Più nel dettaglio, il procuratore capo di Aosta, Marilinda Mineccia, contestava ai tre – per i quali aveva chiesto un anno 10 mesi di carcere a testa – il fatto di avere versato sui rispettivi conti personali, dal 2009 al 2012, assegni per complessivi 138.600 euro tratti dal conto del gruppo di Stella Alpina.
«E’ onere dell’accusa fornire la prova dei fatti costitutivi del reato», in questo caso il peculato, si legge nelle motivazioni depositate questa mattina, che continuano sottolineando come la stessa pubblica accusa «nella memoria» aveva scritto che «per ottenere i rimborsi non era necessario, sino a tutto il 2012, allegare la documentazione giustificativa di spesa».
La mancata conservazione delle pezze giustificative, al massimo, sarebbe poi stata riconducibile «al capogruppo» Francesco Salzone, l’unico a patteggiare la pena, il 22 luglio 2014 davanti al gip del Tribunale di Aosta, Maurizio D’Abrusco, che gli applicò un anno di reclusione dietro la restituzione di 98.100 euro.
Sull’assoluzione di Comé, Lanièce e Viérin «perché il fatto non sussiste», il giudice Colazingari – facendo riferimento all’impianto accusatorio – va comunque oltre: «Il ricorso al criterio della verosimiglianza e alle massime di esperienza conferisce al dato preso in esame valore di prova solo se può escludersi plausibilmente ogni spiegazione alternativa che invalidi l’ipotesi all’apparenza più verosimile».
A tal proposito, il procuratore capo Mineccia aveva sostenuto in udienza come i prelievi «sono avvenuti con cadenza regolare» e da questo aveva desunto «l’esistenza di un accordo tra gli imputati e il capogruppo», con «un’incompatibilità logica con i versamenti rapportati a spese specifiche e documentate».
Per Colazingari, il giudice penale «rimane estraneo alla valutazione» della spesa «in termini di opportunità»; «qui non si tratta di stabilire se sussista o meno una responsabilità contabile», di competenza della Corte dei Conti, la cui Procura regionale – così come anticipato da Gazzetta Matin il 27 luglio scorso – ha già aperto un fascicolo legato proprio alla vicenda.
Riguardo alle spese sostenute sul territorio, durante «riunioni in locali pubblici», il gup del Tribunale di Aosta ha sostenuto che nel corso di questi appuntamenti si discuteva «di problemi che poi dovevano essere trattati in Consiglio regionale oppure problemi che in Consiglio non erano stati risolti», motivo per cui «non è dato affermare che si tratti di spese non pertinenti».
Analizzate le motivazioni della sentenza, è probabile che il procuratore capo di Aosta, Marilinda Mineccia, presenti ricorso alla Corte d’Appello di Torino, così come già formalizzato per la sentenza del primo processo con rito abbreviato, quello che il 30 marzo scorso – davanti al gup Maurizio D’Abrusco – vide l’assoluzione di tutti e 24 gli imputati, accusati a vario titolo di peculato, finanziamento illecito dei partiti e indebita percezione di contributi pubblici.
Nella foto Dario Comé, André Lanièce e Marco Viérin insieme al loro avvocato Stefano Marchesini del foro di Aosta.
(pa.ba.)

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