Geenna, parla Marco Di Donato: «’ndrangheta? Non mi si cucia addosso qualcosa che non è la mia misura»
Lunghissima deposizione (nei panni di testimone) di Marco Fabrizio Di Donato, imputato per associazione mafiosa in abbreviato, nell'aula bunker delle Vallette di Torino
Geenna, parla Marco Di Donato: «’ndrangheta? Non mi si cucia addosso qualcosa che non è la mia misura».
«Voglio dire una cosa: io ho pagato i debiti con la giustizia. Io lavoravo dal mattino alla sera. Adesso sono qui (detenuto ndr) da un anno e mezzo. Io ho pagato e mi sono rifatto una vita. Sono coinvolto per la mia parentela (con i Nirta ndr)? I parenti non si possono scegliere. Ma da lì a dire che ogni cosa che mi riguarda è un reato…Ci sono intercettazioni che sono completamente falsate perché spezzoni presi dai brogliacci. Io i miei errori gli ho già pagati tutti. Ho moglie e figli a casa. L’accusa nei miei confronti (di associazione mafiosa ndr) è astratta. Se ho commesso un reato pago, ma che non mi si cucia addosso qualcosa che non è la mia misura». Questo lo sfogo di Marco Fabrizio Di Donato, imputato per 416 bis in abbreviato e sentito come teste delle difese sabato 11 luglio nell’aula bunker delle Vallette di Torino. Nel processo con rito ordinario sono imputati Marco Sorbara, Monica Carcea, Antonio Raso, Alessandro Giachino e Nicola Prettico.
Comparso in aula dopo le deposizioni di tre collaboratori di giustizia, Di Donato – ritenuto dalla DDA figura di spicco del presunto Locale di ‘ndrangheta – ha risposto alle domande degli avvocati Claudio Soro e Francesca Peyron (difesa Carcea e Giachino) e, in controesame, al pubblico ministero Stefano Castellani. La sua deposizione – sotto l’occhio vigile dell’avvocato difensore Demetrio La Cava – è stata altalenante. Momenti in cui si definiva «uno che si spaccava la schiena in cantiere ogni giorni» sono stati accompagnati da brevi sfoghi e piccoli “battibecchi” e toni accesi nei confronti del pm.
Rispondendo alle domande degli avvocati difensori dell’ex assessora di Saint-Pierre Monica Carcea e del dipendente del Casinò Alessandro Giachino, Di Donato ha spiegato: «Vivo con mia moglie e le nostre tre figlie. Dal 2001 al 2014 ho vissuto a Saint-Pierre. Lì, nel 2005, ho conosciuto Carcea perché avevo fatto un lavoro per suo marito e perché, tramite le figlie che andavano a scuola insieme, mia moglie l’aveva conosciuta. La famiglia Lazzaro sono tanti nel paese, sono tutti grandi lavoratori e sono stimati da tutti, anche da me. Comunque, con le famiglie dei bambini della scuola si facevano pizzate e grigliate».
Riguardo alle elezioni del 2015, il presunto vertice del Locale di ‘ndrangheta ha detto: «Io non sapevo nemmeno che Carcea fosse candidata. Prima delle elezioni Tonino (Raso, imputato di associazione mafiosa ndr) mi chiamò e mi disse era passato Alessandro Nogara dell’Uvp e aveva chiesto se potevo contattare Carcea perché loro (di Uvp ndr) la volevano in lista per le comunali. Io ho chiamato il marito di Carcea, il quale mi ha detto che lei era già candidata nell’altra lista. Io comunque ero disinteressato, non mi interessavano le elezioni di Saint-Pierre».
Rivolgendosi poi al presidente del Tribunale Eugenio Gramola, Di Donato ha detto: «Mi creda, io non ho portato un voto».
Il coimputato-teste ha poi aggiunto: «Prima della misura cautelare avevo debiti. Tanti e forse adesso ancora di più. Nell’ordinanza si parla di flussi di denaro, mentre io facevo fatica a pagarmi la pizza. Sono anche moroso per un garage a Saint-Pierre».
Passando poi all’esame della posizione di Giachino (accusato di essere un membro del presunto Locale), Di Donato ha riferito in merito a un’intercettazione ambientale del 2016 in cui fa riferimento al presunto “taglio della coda” del dipendente del Casinò. E’ il gennaio del 2016 quando i Carabinieri ascoltano Di Donato parlare con Nicola Prettico (anche lui imputato per 416 bis); secondo la DDA «i due discutono proprio dell’opportunità di “tagliare la coda” a Giachino – si legge nell’ordinanza cautelare del gip -. Segnatamente, secondo Di Donato il comportamento tenuto da Giachino dovrebbe venire premiato con detto riconoscimento, mentre Prettico manifesta dei dubbi, dicendo che secondo lui Giachino non è pronto». Nel gergo della ‘ndrangheta, “tagliare la coda” significa consentire l’accesso alla consorteria criminale a un soggetto che fino a quel momento era vicino all’ambiente mafioso, ma che non ne faceva ancora parte.
Sul punto, Di Donato ha spiegato: «Era un battuta, per quanto stupida. La risata che ne segue (l’ambientale è stato riprodotto in aula ndr) la dice tutta. Queste sono le battute che mi porto dal carcere. Lì sono all’ordine del giorno». Il presidente Gramola ha quindi chiesto cosa significasse il “taglio della coda” e il teste ha risposto: «E’ un battesimo di appartenenza a una consorteria. Io intendevo dire che Giachino è un bravo ragazzo, ma era solo una battuta. Anche perché io non ho la possibilità di fare nessun “taglio della coda” e, tra l’altro, credo che non si faccia nemmeno più. Ricordo che Giachino non sapeva nemmeno cosa volesse dire. Era una battuta dissacrante perché Giachino è lontano anni luce da qualsiasi cosa di criminalità e delinquenza, così come ho cercato in tutti i modi di tenermi lontano da quelle cose anche io».
Il coimputato (nella sua veste di testimone) ha poi aggiunto che, a suo dire, la lettura che il pm Castellani ha dato alle cose «è a senso unico». Per Di Donato, infatti, «io uso il termine ambasciata, ma non è un termine mafioso. Volete sapere perché Bruno Nirta (presunto boss, anche lui a giudizio in abbreviato ndr) era chiamato “La Belva”? Perché una volta sgridò un suo nipotino e questo disse alla mamma che “lo zio sembrava una belva”. Da tutto questo: mi si venga a dire di appalti, promesse e soldi. Scambio di voto? Io? Ma di cosa stiamo parlando? Io non ho avuto nessun vantaggio da nessuno».
Di Donato ha poi negato di aver mai incontrato Augusto Rollandin; in un’intercettazione, però, il presunto vertice del Locale sostiene proprio il contrario con il suo interlocutore. «Ma era una chiacchiera».
E a sentire la deposizione di Di Donato, «chiacchiere» e «battute» se ne facevano tante. Tanto che a un certo punto in aula è intervenuto il presidente Gramola: «Ma voi quando parlate fate solo pettegolezzi e pour parler?».
Sempre per l’udienza di sabato 11 erano chiamati come testimoni dell’accusa anche Roberto Alex Di Donato e Francesco Mammoliti (entrambi a processo in abbreviato e ritenuti dalla DDA di Torino membri del Locale). Tuttavia, entrambi hanno deciso di avvalersi del diritto di non rispondere in quanto coimputati.
Servizio completo sull’udienza nell’aula bunker delle Vallette di Torino su Gazzetta Matin in edicola lunedì 13 luglio.
(f.d.)