Slow Food: divieti Ue su pesticidi riguardino anche Paesi terzi
Roma, 2 lug. (askanews) – I divieti sull’uso di pesticidi in vigore nell’Ue riguardino anche i Paesi terzi. E’ la richiesta avanzata da Slow Food, che ha pubblicato un nuovo dossier dedicato alle filiere di mais e di grano, sul tema delle clausole specchio e dei doppi standard applicati al cibo importato all’interno dell’Unione europea da Paesi esterni ai confini comunitari. Nel documento viene affrontato il tema dell’utilizzo di pesticidi, erbicidi e diserbanti, tipologie di sostanze di cui si fa largo uso nelle coltivazioni cerealicole, che vengono condotte perlopiù su larga scala, in monocolture e con modelli convenzionali.
Per quanto riguarda il mais, l’Ue ne importa ogni anno circa 15 milioni di tonnellate, prevalentemente da Ucraina e Brasile, ma anche da Argentina e Stati Uniti; per quanto riguarda il grano tenero, in stagioni normali ne importa circa 8 milioni di tonnellate, principalmente da Stati Uniti, Canada, Australia, Ucraina e Russia; per quanto riguarda il grano duro, nel 2024 le importazioni all’interno dell’Ue sono ammontate a poco più di 1,7 milioni di tonnellate.
Slow Food chiede che ai prodotti importati nell’Ue vengano applicate le stesse norme in vigore per le produzioni comunitarie. Poco rassicura, spiega Slow Food, sapere che i cereali d’importazione rispettino i cosiddetti LMR, i limiti massimi di residui per i pesticidi nelle colture alimentari e foraggere: nella cerealicoltura, infatti, la tipologia di sostanza più utilizzata è quella dei diserbanti, che vengono impiegati prevalentemente in “pre-emergenza”, ovvero subito prima o contemporaneamente alla semina.
“Siccome questi trattamenti avvengono lontano dalla raccolta, è piuttosto improbabile che nel raccolto si trovino residui significativi”, ricorda Slow Food. A parte i residui, però, il tema relativo all’utilizzo di sostanze chimiche riguarda gli effetti dannosi sull’ambiente.
Gli obiettivi da centrare, dunque, “sono molteplici: non solo tutelare i consumatori europei dall’esposizione a prodotti meno salubri e proteggere i produttori interni da forme di concorrenza sleale dovuta a costi inferiori in altre aree del mondo, ma anche e soprattutto per difendere il diritto alla salute delle comunità locali dei paesi terzi dallo strapotere dei colossi dell’agroindustria, disposti a sacrificare il benessere di persone e ambiente sull’altare del proprio profitto”, conclude Slow Food.