‘ndrangheta: così fu archiviata Lenzulo, la prima inchiesta sulle infiltrazioni mafiose in Valle d’Aosta
Coordinato dalla DDA di Reggio Calabra, il fascicolo passò a Torino, ma non si arrivò a un processo
‘ndrangheta: così fu archiviata Lenzulo, la prima inchiesta sulle infiltrazioni mafiose in Valle d’Aosta.
Secondo la Direzione Distrettuale Antimafia di Torino, per comprendere la presunta infiltrazione della ‘ndrangheta in Valle d’Aosta fotografata nell’inchiesta Geenna è necessario fare anche un salto indietro nel tempo, e leggere – dove necessario – tra le righe di altri procedimenti che hanno riguardato esponenti (o presunti tali) della mafia Calabrese.
Nelle carte che hanno portato a processo i 19 imputati di Geenna, è citata più volte l’indagine Lenzuolo dei primi anni 2000, la prima inchiesta sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Valle. Nell’informativa del 2014 del Reparto Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Aosta, ad esempio, viene segnalata «l’emersione di fatti di reato avvenuti già dagli anni ‘70 agli anni ‘90 quali segnali della presenza della criminalità calabrese in Valle d’Aosta e raccolti in un’inchiesta (Lenzuolo ndr) che, seppur non sfociata in un processo penale, aveva fotografato l’esistenza del fenomeno della ‘ndrangheta in Valle, nonché la presenza di una struttura organizzata che seguiva i dettami della tradizione della consorteria mafiosa calabrese».
Le intercettazioni
Le intercettazioni effettuate all’epoca, quantomeno, portavano in quella direzione. Per fare un esempio, il 22 aprile 2000, il presunto capo bastone parla con un calabrese residente in Valle, anche lui poi indagato in Lenzuolo. Ques’ultimo chiede: «Che si dice? Coi capi vostri? La ‘ndrangheta che fa? Funziona o no?». Risposta: «Eh là è tutto tranquillo. Ognuno lavora, casa, lavoro, quando ci vediamo ci sediamo a un tavolo… facciamo una bella ‘ndrina e ci salutiamo un’altra volta».
Il 18 luglio, invece, sempre il presunto boss viene intercettato mentre dice: «Due sono le cose: sei il potente o sei il pezzente”. Come noi ad Aosta, in una città dove possiamo fare i diplomatici, dove possiamo fare quello che vogliamo, dobbiamo fare i deficienti sotto altri altri. Ma come 2.500 miliardi di bilancio, ma te li vuoi pigliare 1.000 miliardi e te li gestisci».
Non solo. È rilevante anche il fatto che l’operazione era stata denominata Lenzuolo in ragione della suggestiva scena che i militari operanti avevano osservato la notte tra il 23 e il 24 agosto 1999 nel retro di un bar di Aosta (un uomo seduto su di una sedia posta al centro di un lenzuolo bianco disteso per terra e altri uomini in piedi attorno al primo), scena che gli investigatori ricondussero a un rituale di ‘ndrangheta.
Lenzuolo è citata poi anche nelle carte di Altanum, la secondo operazione antimafia in salsa valdostana del 2019. Nell’ordinanza si legge che Lenzuolo era inizialmente nelle mani della DDA calabrese (pm Francesco Molloce), «interessata per competenza in quanto si riteneva che la strutttira criminale, per le sue caratteristiche di “locale di servizio” fosse una promanazione delle cosche operanti in Calabria».
La storia di Lenzuolo
E’ il 12 maggio 2001 quando il pm della DDA di Reggio decide di chiedere al gip l’arresto di sedici persone, sospettate di far parte di un “locale” di ‘ndrangheta costituito in Calabria ma operante ad Aosta, in diretto collegamento con le cosche Iamonte e Facchineri. Il giudice Gianpaolo Boninsegna, tuttavia, rigetta la richiesta ritenendo che la competenza sia in capo al Tribunale di Torino.
Nella sua ordinanza del 31 maggio 2001, infatti, sottolinea alcuni aspetti importanti: «Le indagini, nella loro complessità e nel loro indubbio spessore probatorio, mettono in luce l’esistenza in Aosta di un vero e proprio “locale” della ‘ndrangheta calabrese di rilasente costituzione».
«Un’associazione strutturalmente radicata ad Aosta»
Non quindi una mera “cellula” delocalizzata, ma un’associazione strutturalmente radicata ad Aosta. Ed è proprio questo il motivo per cui la competenza non sarebbe in capo al gip calabrese. In aggiunta, scrive il gip, «è evidente che l’agire dell’associazione si misura con la realtà sostanzialmente diversa da quella calabrese nella quale ad esempio non riesce ad attecchire il fenomeno della imposizione sistematica del pizzo, ma gli affiliati pongono in essere tutti gli atti diretti a realizzare scopi tipici del sodalizio mafioso, dalla infiltrazione nell’economia e nella politica aostana, al riciclaggio di denaro sporco, valendosi non solo della forza associativa, ma di una capacità di intimidazione che è ben coperta ma presente.
La visibilità “militare” o violenta del fenomeno mafioso non è condizione necessaria della sua esistenza essendo al contrario assai più fruttuosa una condotta defilata e un uso limitato e chirurgico dell’intimidazione medesima».
La «mafia silente»
Insomma, l’allora gip di Reggio Calabria sembra proprio definire il concetto giurisprudenziale di “mafia silente”, un termine utilizzato anche nella relazione che ha portato allo scioglimento del comune di Saint-Pierre. Secondo i commissari che per sei mesi hanno scandagliato gli atti del comune, «dal materiale investigativo raccolto negli anni, è stato possibile mettere a fuoco le modalità con le quali si declina il fenomeno ‘ndranghetista in Valle d’Aosta. Esso, pur riproducendo alcune caratteristiche tipiche dell’associazione mafiosa calabrese, si contraddistingue sul piano esterno per il basso profilo con cui si manifesta, necessitato dall’esigenza di rendersi sempre meno visibile, sia per una certa resistenza da parte della popolazione locale ad accettare facilmente imposizioni di carattere estorsivo, sia soprattutto per evitare di attirare l’attenzione delle forze dell’ordine e della magistratura».
L’archiviazione
Ma torniamo alla storia del fascicolo. Il 17 ottobre 2003, l’allora pm della DDA di Torino Andrea Padalino chiede l’archiviazione di Lenzuolo. Nella richiesta inoltrata al gip, il magistrato precisa che «il giudice per le indagini preliminari (di Torino ndr), ritenuta la propria competenza, rigettava la richiesta di intercettazione di utenze in uso» a uno dei principali indagati, il quale in un ambientale del 20 maggio 2000 si definiva «consigliere a Polsi». Il pm torinese, quindi, conclude: «Analizzando il materiale probatorio all’epoca raccolto, va osservato che gli elementi acquisiti non consentono di ipotizzare la sussistenza di un quadro probatorio sufficiente e condurre a un’affermazione di responsabilità a carico degli indagati». E il 15 gennaio 2004, il gip Patrizia Gambardella firmò il decreto di archiviazione.
Le motivazioni del provvedimento
Nel documento, il giudice evidenzia la mancanza di un requisito prescritto dal III comma dell’articolo 416 bis (associazione mafiosa). Al contrario di quanto affermato dal gip calabrese, infatti, il magistrato torinese riprende l’impostazione iniziale dell’accusa secondo cui «gli uomini della ‘ndrangheta individuati non operano ad Aosta secondo le metodologie comportamentali» previste dal codice penale per il reato di associazione mafiosa. Il gip, comunque precisa: «Allo stato, le risultanze investigative agli atti, sebbene si registrino meri indizi di collusioni con amministratori locali e progetti di manovre volte alla gestione di attività economicamente rilevanti, non consentono di sostenere efficacemente l’accusa in giudizio in ordine all’ipotizzato reato associativo».
Si chiude così quindi la storia della prima inchiesta sulla presenza della ‘ndrangheta in Valle d’Aosta. Un’indagine che, sebbene non sia sfociata in un processo, fa sentire ancora oggi il suo peso entrando a gamba tesa, con similitudini e nomi ricorrenti (non quelli degli ordierni imputati), nelle dinamiche ‘ndranghetiste ricostruite dalla DDA di Torino in Geenna, cioè la prima grande inchiesta “valdostana” di ‘ndrangheta su cui dovrà esprimersi un giudice al termine di un processo.
(federico donato)