Processo Geenna, la difesa di Giachino: «Taglio della coda? Non sa nemmeno cosa vuol dire»
Secondo il legale, «qui manca tutto, potremmo parlare di un Locale brancaleone, anche se di comico non c’è niente perché abbiamo persone che si trovano in carcere da più di un anno e mezzo»
«A mio avviso quanto emerso nel processo ha stravolto un assetto accusatorio già traballante. Abbiamo una ragnatela di intercettazioni, ma bisogna andare oltre. Qui non ci sono prove, è un processo indiziario». Così l’avvocato Claudio Soro, difensore del dipendente del Casinò Alessandro Giachino e dell’ex assessora di Saint-Pierre Monica Carcea, durante l’arringa pronunciata nel corso del processo Geenna su presunte infiltrazioni della ‘ndrangheta in Valle d’Aosta.
Secondo il legale, «qui manca tutto, potremmo parlare di un Locale brancaleone, anche se di comico non c’è niente perché abbiamo persone che si trovano in carcere da più di un anno e mezzo. Non ci sono soldi…qui parliamo di personaggi improbabili. Ma che Locale è? Prettico si fa gli affari suoi, Di Donato millanta, Raso non parla con Prettico..».
In aggiunta, secondo la ricostruzione di Soro non è vero che la presunta consorteria aveva la forza dell’intimidazione, anche perché «nessuno la percepiva».
Altresì rilevante il fatto che dalle accuse mosse dalla DDA di Torino «non si capisce nemmeno chi è il capo del Locale».
Passando poi alla posizione di Giachino, imputato per associazione mafiosa (per Carcea l’arringa è stata pronunciata dall’avvocato Francesca Peyron), Soro ha evidenziato come «non si capisce qual è il capo d’imputazione del mio assistito. “Mettersi a disposizione dell’associazione”, senza precisazioni, non significa nulla».
Riguardo all’ormai nota intercettazione in cui gli imputati Nicola Prettico e Marco Di Donato parlano del “taglio della coda”, il legale ha tuonato: «I due ne parlano in presenza di nove persone, tra cui cinque figlie tra quelle di Di Donato e quelle di Giachino. Ma non esiste una prova in grado di dimostrare che il rito ci sia stato. E’ in carcere da più di un anno e mezzo per uno scambio di battute, un colloquio tra due burloni. E il pm ci viene a dire che con cinque figlie che giravano per casa Di Donato ha scarrellato un’arma? Questa è un’invenzione. L’audio di quell’ambientale lo abbiamo sentito in aula più volte, c’è una risata sgangherata che toglie serietà al momento sacro che dovrebbe essere la proposta di affiliazione». Ancora: «Giachino ha sempre detto che il taglio della coda non sa nemmeno cosa voglia dire. Anche Marco Di Donato ha confermato che si trattava di una battuta di cattivo gusto».
Ma chi è Alessandro Giachino? Il legale, sottolineando come «il giudizio non può prescindere dalle persone», ha spiegato: «Giachino è un giovane incensurato. Non è mai stato in Calabria ed è un grande lavoratore, sposato e padre di due figlie. Si è diplomato e dall’età di 14 anni lavora. A seguito di concorso è entrato al Casinò, dove ha fatto carriera fino a diventare croupier, senza però mai smettere di lavorare nel settore delle piccole ristrutturazioni. Ha poi aperto una piccola ditta, dove ha assunto il cognato e Marco Di Donato. Giachino è stimato da tutti e conosciuto per la sua grande disponibilità. Proprio la sua disponibilità nei confronti di Di Donato l’ha inguaiato».
Più in generale, Soro ha ribadito: «A noi che si sia la ‘ndrangheta in Valle d’Aosta non ce ne può fregar di meno. E che ci sia stata in passato ce ne frega ancora meno. Il problema qui è capire se esiste il Locale oggetto del processo. La storia della ‘ndrangheta in Valle non esiste e non ci riguarda».
Concentrandosi brevemente sui presunti membri del Locale, l’avvocato ha posto l’accento sul fatto che «il processo ruota intorno a Marco Di Donato, ma dietro la sua figura ci sono solo millanterie. Lo possiamo definire un millantatore seriale che racconta solo balle». E di solito, ha aggiunto, «le balle» si raccontano «per ottenere qualcosa», ma «questo signore non ha avuto nessun ritorno dal punto vista economico». Raso, invece «è una persona completamente diversa da lui. E’ incensurato, si è fatto dal nulla e, arrivato in Valle dalla Calabria, è diventato un imprenditore. Da buon commerciante è amico di tutti, questo è un fatto noto. Tonino diceva sì a tutti (i politici che andavano a chiedere il voto ndr), lo ha detto lui in aula. Ma far passare il ristorante La Rotonda come centro di interessi criminali è ingiusto e non è vero. Le risultanze dibattimentali e le frequentazioni lo dimostrano. Ci andavano tutti a mangiare, anche le Forze dell’ordine e i magistrati».
In foto, l’avvocato Claudio Soro (a destra) insieme all’avvocato Ascanio Donadio.
(f.d.)