Nato per non correre: la grande sfida vinta da Salvo Anzaldi
L'ex giornalista di Gazzetta Matin ha presentato ieri alla libreria A la Page di Aosta il suo libro che racconta la sua vita da emofilico e l'avventura alla maratona di New York con una protesi al titanio al ginocchio destro
Scrivere un libro sulla propria partecipazione da emofilico con protesi al titanio al ginocchio destro alla maratona di New York e intitolarlo Nato per non correre non è così scontato. Anzi. Ma si addice alla perfezione al personaggio Salvo Anzaldi, giornalista dal 1989, prima pubblicista e poi professionista, per anni redattore in periodici locali (anche valdostani), ora esperto di comunicazione istituzionale, in particolare in ambito sanitario, nonché docente all’Università del Piemonte Orientale.
Un uomo assolutamente non banale
Sì, perché Salvo è tutto, fuorché un uomo scontato, banale, prevedibile. E’, invece, una persona che alterna una cultura classica a una decisamente più rock (fa pure parte di un coro Vocal eXcess) a forti tinte sportive. Ho avuto il piacere di conoscerlo quindici anni fa, durante uno dei grandi cambiamenti della mia vita professionale.
Dal mio precedente giornale arrivavo a Gazzetta Matin e, assieme a volti più o meno noti del panorama giornalistico locale, ho messo a fuoco quello che poi, all’inizio di novembre del 2015, in un locale della Grande Mela, verrà identificato da una coppia di newyorkesi, come il sosia dell’attore Stanley Tucci.
Anzaldi, torinese, ma proveniente dalla direzione di un settimana ligure (La Riviera), si occupava di politica e attualità ed era riuscito a calarsi senza problemi in una realtà per lui nuovissima. Salvo, nelle sue pagine, firmava una rubrica “Il pastone valdostano”, uno dei must del nostro giornale, nel quale analizzava la settimana con realismo, intelligenza, schiettezza e ironia.
La passione per lo sport e per i numeri
Mio coscritto, grande appassionato di sport, grandissimo appassionato di calcio, assolutamente allergico a una maglia a strisce priva del technicolor, innamorato del tennis e di Roger Federer, una passione (e una cultura) smisurata per la musica, un grande feeling con la magìa che solo i numeri sanno regalare. Dal punto di vista umano c’erano tutti gli elementi perché ci fosse simpatia.
Un talento naturale per il giornalismo
Se a tutto questo aggiungiamo un talento naturale per il giornalismo (nel 2005 ha vinto il premio St-Vincent, consegnatogli, poche settimane dopo l’impianto della protesi al ginocchio, dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale), una sviluppata professionalità, una notevole cultura, abbinati a un’intelligenza brillante, che lo rende capace di trasformarsi da serissimo e lucido giornalista, a contagioso e irresistibile compagno di scherzi e di risate, il mix era perfetto perché si creasse un legame tra di noi.
Una grande sensibilità umana
A cementare questo legame, è stata la sua notevole sensibilità umana, che gli permette di non sbagliare i tempi di un intervento nei tuoi momenti, quelli belli come quelli brutti. In questi anni, nonostante la distanza geografica e i rispettivi impegni professionali e personali, che sempre più spesso ci fanno vivere in un frullatore terrestre, Salvo si è manifestato all’improvviso per condividere insieme a me qualche successo sportivo, ma anche i dolori che la vita ci propone, confermandosi interlocutore privilegiato quando si tratta di prendere qualche decisione importante.
«Non mi sono mai vergognato di questa malattia, risparmiatemi la vostra compassione»
Un uomo con la schiena dritta, un’espressione che lui ama molto e che ha saputo mettere in pratica alla perfezione, nella vita come nella corsa. Un uomo al quale la vita non ha fatto sconti e che alla vita non ha chiesto sconti. «Non mi sono mai vergognato di questa malattia, ero e resto innocente, vostro onore, anzi, mi dichiaro parte lesa. Risparmiatemi la vostra compassione, non mi serve e non mi aiuta a stare meglio, trattatemi come tutti gli altri e io saprò stare al gioco senza tradirmi», scrive a metà del libro.
Una iper riservatezza nata dal desiderio di tacere la malattia
Leggendo Nato per non correre (libro edito da CasaSirio nella collana Sciamani, presentato ieri alla libreria A la Page di Aosta) ho ritrovato il Salvo Anzaldi che ho conosciuto in un 2004 di grandi cambiamenti, apprezzandone la lucidità e la capacità introspettiva dell’uomo rigoroso, severo con gli altri, e, in particolar modo, con se stesso, ma bravissimo a non prendersi troppo sul serio, capace di ridersi addosso e mettere a nudo i suoi limiti e le sue incertezze.
Un libro che, finalmente, ci presenta un Salvo Anzaldi a 360°, aprendo a tutti il suo universo, il suo stare al mondo convivendo con una malattia, l’emofilia, legata al deficit di uno dei fattori coagulanti del sangue, patologia con la quale è nato, ma che gli è stata diagnosticata nel febbraio del 1978, quando doveva ancora compiere i 9 anni.
Un evento fortissimo, per un bambino di quell’età, specie nell’Italia della fine degli anni ’70, nel quale la medicina non era ai livelli attuali. E, infatti, una diagnosi tardiva di ben tre anni e mezzo, abbinata a un trattamento arretrato degli emartri, le emorragie articolari che gli hanno logorato cartilagini e ossa, gli sono costate l’intervento al ginocchio destro, sostituito nel 2005 con una protesi al titanio.
In questo libro si alza il velo di riservatezza che ha accompagnato la vita di Salvo, un velo che in tanti, io per primo, abbiamo attribuito a un aspetto del suo carattere per poi scoprire che, invece, era proprio dovuto a un inderogabile rifiuto delle scorciatoie e dalla fortissima esigenza di essere trattato esattamente per l’uomo che è e non per la malattia che ha.
La maratona di New York: una montagna alta, altissima
Preparare la maratona di New York, la più famosa del mondo, in dieci mesi, è un’impresa tosta per qualsiasi essere umano normodotato di 46 anni. Farlo da emofilico, con un ginocchio di titanio, senza aver mai corso, partendo da una condizione fisica rivedibile, senza mollare un centimetro a impegni famigliari e professionali, è un qualcosa che al Tour de France catalogherebbero come colle hors cathégorie.
Salvo lo sa benissimo e lo ammette quando modifica la frase di un famoso ex segretario generale dell’Onu, nonché premio nobel per la pace: «Non misurare mai l’altezza del monte prima di aver raggiunto la cima, allora vedrai quanto era basso», dichiarandosi d’accordo sulla prima parte, ma rettificando la seconda con un eloquente: «Il mio monte era alto. Altissimo».
Manco a dirlo, però, Salvo l’ha scalato tutto, con la determinazione tipica dei suoi idoli, da Esteban Cambiasso a Paul Breithner, da Mohamed Alì a Bruce Springsteen, aggiungendo quei colpi di classe che solo John McEnroe e Roger Federer hanno saputo regalare agli appassionati di tennis.
Nato per non correre è la storia di un bambino vivace, ma piuttosto cagionevole, nato nell’agosto del 1969, mica un anno qualsiasi, l’anno di Woodstock e dell’uomo sulla luna, cresciuto nella periferia torinese, che scopre di avere una malattia incurabile, con la quale deve imparare a a convivere.
E lui ci riesce, passando attraverso i normali agguati che attendono ogni giovincello (le cadute a scuola, gli infortuni giocando a pallone), che in un emofilico esponenzializzano il loro impatto, diventando devastanti. Il giovane Anzaldi, in più, deve fare i conti con i limiti della medicina di allora.
Un emozionante romanzo generazionale
Alternando riflessioni profonde sulla situazione italiana a esilaranti momenti di vita, raccontando i vari step della sua storia, Salvo Anzaldi non si dimentica di legare il suo racconto all’Italia nella quale vive, un paese che passa dal boom economico alla recessione, legando alcuni avvenimenti clou della sua esistenza a eventi che hanno segnato la storia del nostro paese, non solo direttamente legati al racconto, come lo scandalo degli emoderivati, che lo porta a dire di aver danzato a un passo dalla morte.
Nelle pagine di Nato per non correre troviamo appuntamenti o riferimenti sportivi, musicali, a film di successo, persino alle serie tv importate dalla televisione commerciale, come i mitici Jefferson, ma anche il terribile Jr di Dallas, che spunta dalle urla di una signora nel reparto di ortopedia del Regina Margherita di Torino.
Nato per non correre, diventa così un romanzo generazionale, che permette al lettore di correre a fianco dell’autore, provando a ricordare dove si trovava il giorno della strage di piazza Fontana, o della finale dei Mondiali del ’74, o della mitica Italia-Brasile dell’82, o del colpo di stato in Cile (meravigliosa la riflessione del piccolo Salvo, che, davanti alla frase in rosso scritta su un edificio della sua città: “Il Cile è rosso e vincerà”, si interroga su chi possa aver scritto una cosa così poco sensata, vista l’eliminazione dei sudamericani dal mondiale tedesco), passando per l’elezione di Benedetto XVI o di una delle tante crisi del governo valdostano.
Una testimonianza di forza, coraggio ed entusiasmo
Un libro scritto bene, ma questa è una non notizia, capace di intrigare il lettore, facendolo sorridere, riflettere, emozionare e commuovere. E anche, per non dire soprattutto, un’importante testimonianza di coraggio, forza ed entusiasmo, utile per chiunque si trovi ai piedi di un monte, che sia, o meno, affetto dall’emofilia.
(davide pellegrino)