Processo Geenna, la difesa di ‘Tonino’: «Intimidazione? Raso è noto solo come ristoratore»
Gli avvocati Siciliano e Donadio, nel corso dell'arringa difensiva, hanno evidenziato l'assenza di prove in grado di dimostrare l'esistenza di un vincolo associativo tra gli imputati
I fatti emersi dalle indagini e nel corso del processo «dimostrano tutto fuorché Raso sia associato alla ‘ndrangheta. E’ una persona per bene, un lavoratore. Tutti lo conoscevano ad Aosta, anche se oggi qualcuno che frequentava il suo ristorante se ne è dimenticato. Ma la verità è che Raso è sempre stato visto come un ottimo ristoratore e basta». Così l’avvocato Ascanio Donadio ha riassunto ai cronisti la sua arringa pronunciata giovedì 10 settembre nell’ambito del processo Geenna su presunte infiltrazioni della mafia calabrese in Valle d’Aosta. Il suo assistito, Antonio Raso, è accusato dalla DDA di Torino di essere una delle figure di spicco del presunto Locale di ‘ndrangheta al centro dell’inchiesta.
Il co-difensore Pasquale Siciliano ha invece evidenziato come, sebbene il telefono dell’imputato fosse intercettato e nel ristorante fossero presenti numerose “cimici”, «le intercettazioni hanno restituito una realtà diversa da quella ipotizzata dalla Procura. Anzi, hanno restituito l’immagine di una persona per bene e di un lavoratore. Non si evincono reati nella sua condotta».
In aula, i due legali hanno posto più volte l’accento sul fatto che – a differenza di quanto sostenuto dalla DDA di Torino – «non vi è nessuna prova della forza dell’intimidazione né dell’esistenza di un vincolo associativo tra gli imputati. La ‘ndrangheta non si struttura sulle intenzioni ma sulla forza intimidatrice». Non solo: «Non vi sono nemmeno contatti tra questo gruppo e la Calabria».
Poi, «nessuno dei pentiti» sentiti durante in processo «ha riconosciuto qualcuno degli attuali imputati come affiliato alla ‘ndrangheta».
Sempre analizzando la posizione di Raso, Donadio ha affermato: «La sua forza dell’intimidazione è inesistente, anzi sotto zero. Questo lo si evince da vari episodi» contenuti nel fascicolo. E sul punto ha aggiunto: «Non esiste nessuno che tema Raso o che immagini la sua appartenenza alla ’ndrangheta. Il pm dice che la sua fama era nota? Ma a chi? Raso è incensurato. Anche le Forze dell’ordine frequentavano il suo ristorante».
Secondo la DDA, poi, il ristoratore era entrato a far parte di una loggia massonica «per incrementare la rete di relazioni e contatti con esponenti della società civile e consolidare la presenza sul territorio», si legge nell’ordinanza del gip. Sul tema, Donadio ha rilevato che «è un’indagine sulle intenzioni. Non c’entra se negli ambienti della ‘ndrangheta è tipico entrare nella massoneria per questo motivo. Questa (quella della DDA ndr) ipotesi è basata su un preconcetto e su una presunta volontà. Ma se davvero così fosse, Raso non sarebbe andato in Francia e non avrebbe provato (senza riuscirci ndr) a fondare una loggia ad Aosta, sarebbe entrato in una loggia esistente».
A conferma «dell’estraneità di Raso dall’ambiente criminale», i due legali hanno anche evidenziato come, dopo aver appreso che all’interno del ristorante erano presenti delle “cimici”, «la sua vita non cambia di un centimetro. Non è vero, come sostiene l’accusa, che “è diventato più accorto”. E non è vero che Raso era in grado di ottenere informazioni riservate. Chi lo ha avvertito era in grado di farlo, ma cosa c’entra Raso?».
I legali hanno quindi chiesto l’assoluzione per il loro assistito.
(f.d.)