Albarello rivive lo storico oro di Lillehammer: “La vittoria di una grande famiglia”
Cima di Sappada ha ospitato ieri la grande festa per l'impresa del quartetto azzurro nella staffetta di fondo alle Olimpiadi del 1994
Una grande festa per festeggiare lo storico oro di Lillehammer.
Cima di Sappada si è accesa, ieri, per celebrare i quattro moschettieri azzurri che 30 anni fa zittirono i 200mila norvegesi dello stadio di Birkebeiner pronti a celebrare il trionfo dei Vichinghi di casa.
A intervistare Marco Albarello, Maurizio De Zolt e Giorgio Vanzetta c’era anche il giornalista valdostano Paolo Mei.
Nel corso della serata c’è stato il modo di celebrare la padrona di casa Lisa Vittozzi, reduce da uno stupendo Campionato del Mondo di biathlon.
All’evento, tra le altre autorità, era presente anche l’assessore regionale valdostano allo sport Giulio Grosjacques.
Un meraviglioso romanzo reale
Sembra un romanzo. Uno di quei romanzi d’antan dal canovaccio esemplare e rassicurante.
I protagonisti alle prese con mille difficoltà, che superano con edificante determinazione, e il lieto fine, eticamente impeccabile.
D’altra parte, un’emittente televisiva vi ha dedicato un lungometraggio molto apprezzato.
Particolare fondamentale di questa storia: non si tratta di romanzo, ma di realtà concreta e inoppugnabile.
La data è fatidica e ne ricorre tra tre giorni l’anniversario: è il 22 febbraio 1994.
La location è indubbiamente suggestiva, perché a Lillehammer, in Norvegia, si stanno disputando le Olimpiadi invernali, le prime a interrompere la contemporaneità con quelle estive.
Marco Albarello, un campione affermato in missione
Marco Albarello vi giunge con un palmarès già onusto di gloria e trionfi: campione del mondo nella 15 km a Oberstdorf nel 1987, podi in staffetta ai Mondiali (Seefeld e Falun), argento sempre in staffetta ai Giochi di Albertville 1992.
A Lillehammer, cinque giorni prima, era arrivato anche il bronzo individuale nella 10 chilometri.
Ma quel 22 febbraio, insieme ai compagni Maurilio De Zolt, Giorgio Vanzetta e Silvio Fauner, Albarello compie un’impresa destinata alla storia del fondo (e non a caso ha fruttato ai quattro la stella nella Walk of Fame dello sport azzurro nel Parco Olimpico del Foro Italico di Roma).
La Norvegia pronta a festeggiare un oro annunciato
La Norvegia tutta si ferma, la disciplina da quelle parti è rito, la circonda un’aura di sacralità.
Gli staffettisti scandinavi sono ultra favoriti, nessuno e niente li può fermare, per il tripudio e la gloria della loro gente, assiepata numerosa e imponente sul tracciato.
E allora, che vittoria sia, annunciata e raccolta.
I quattro moschiettieri azzurri del fondo vincono lo storico oro a Lillehammer
Ma qualcuno non ci sta a recitare la parte della vittima sacrificale, a interpretare una parte da attore non protagonista di un copione già scritto per altri.
Sono gli italiani che abbiamo ricordato – De Zolt, Albarello, Vanzetta e Fauner -, che stravolgono il pronostico e un esito determinato a priori.
I norvegesi conoscono una sconfitta senza precedenti, ribaltati a casa loro da quattro latini dalla faccia pulita, spinti dalla classe e da una ferrea volontà.
Una forza di volontà non certo estemporanea, ma maturata giorno dopo giorno, anno dopo anno, attraverso sacrifici e fatiche, senza sconti.
Marco Albarello, il campione rossonero di quella epica prestazione, la rivive per Gazzetta Matin e Aostanews.it come se questi trent’anni non fossero mai passati.
Albarello: «Gli epici ritiri oltre il Circolo Polare artico»
Albarello, un trionfo che viene da lontano.
«Decisamente. Ricordo gli inizi, quando per allenarci finivamo oltre il Circolo Polare Artico e stavamo per cinquanta giorni assieme, in sei in una stanza con i letti a castello, lontani dal primo centro abitato.
Trasferimenti in pullman di 12-14 ore. Un’esperienza dura, arrivo a definirla psicologicamente alienante; non tutti ce l’hanno fatta, alcuni hanno abbandonato strada facendo. Per rendere l’idea, un giorno sento piangere tre compagni più anziani di me. Non capisco e vado a rendermi conto: sfogavano così la contentezza perché si stava tornando a casa. E dire che si trattava di atleti già nella Squadra A, nel giro della Coppa del Mondo.
Il nostro allenatore era un finlandese che definire esigente è riduttivo. Non è stato facile, ma da lui ho imparato il culto del sacrificio, la regola per cui se non ti impegni più che seriamente non raggiungi gli obiettivi.
In carriera vivevo per duecento giorni all’anno in giro per il mondo con i compagni, più che con mia moglie.
De Zolt mi faceva da chioccia e preparava il caffè al mattino. Maurilio mi ha insegnato due concetti preziosissimi: rispetto e lavoro».
Albarello: «Ci sentivamo una grande famiglia»
Veniamo a quel 22 febbraio 1994. Siamo nei giorni e nelle ore precedenti, la fase dell’attesa, vissuta come?
«Quella gara di staffetta è stata definita come una delle migliori dieci nel panorama sportivo.
Ci sentivamo una grande famiglia, noi quattro e Alessandro Vanoi, il nostro responsabile tecnico. Una grande famiglia unita da un amalgama perfetto tra tre generazioni di atleti, fortemente motivati da un credo unitario.
Un’attesa facile o difficile? Ritengo che a Lillehammer fossimo al massimo del nostro potenziale. Una staffetta fortissima. E, soprattutto, spinta da una volontà ferrea di arrivare al risultato: se non credi tu in te stesso, parti già in salita, con poche speranze.
Il podio non era scontato, anzi. Ci confrontavamo con russi, norvegesi, finlandesi e atleti sempre di prim’ordine di altre nazionalità».
Albarello: «I norvegesi avevamo timore di noi»
I primi segnali di una giornata memorabile non si fanno attendere.
«Ci siamo accorti che i norvegesi padroni di casa avevano fatto riposare in precedenza alcuni elementi di punta. Era un chiaro segnale del fatto che ci temevano.
Poi, nelle prove, vedo che mi trovavo dieci metri più avanti. Era un altro segnale, determinante: avevo azzeccato sci, scioline e paraffine. La consapevolezza di un risultato storico dallo stato embrionale stava prendendo forma».
Albarello: «Avevamo un piano curato nei minimi particolari»
Inizia la gara.
«Il nostro piano era chiaro, curato nei minimi particolari, e dovevamo attuarlo con precisione. La strategia prevedeva di rimanere attaccati ai primi, per portare Fauner allo sprint. De Zolt mi cede il testimone in seconda frazione con meno di 10″ di ritardo, li recupero, ma ai 5 km vado in crisi. Poteva essere fatale. E invece non demordo. Riprendo gli atleti di testa nella discesa e mi porto davanti».
Albarello: «Da dietro mi pestavano gli sci, ho rotto un bastoncino a Kirvesniemi»
Una battaglia senza esclusione di colpi.
«Andavamo allo spasimo. Sul traguardo, 200mila spettatori pronti a esultare per i norvegesi, e tanti altri a contornare il percorso, la Norvegia si era letteralmente fermata, non è un eufemismo.
Si sentiva un cuore pulsante, un calore avvolgente, là erano tutti sportivi. Un’emozione difficile da descrivere.
Da dietro mi pestavamo gli sci nel tentativo di non perdere terreno mentre io tiravo. Nella foga del momento, rompo un bastoncino a Kirvesniemi. Ci siamo spiegati dopo la gara, sono cose che succedono quando lo stress ti agguanta. Ci conoscevamo bene e ci stimavamo, complici le tante avventure affrontate insieme».
Albarello: «Lo storico oro di Lillehammer è stato la realizzazione di un sogno»
Il piano si compie alla perfezione.
«Puntualmente. Portiamo Fauner all’ultima frazione per lo sprint. I fotogrammi si susseguono. Fauner è davanti. Fauner brucia gli avversari. Fauner taglia il traguardo. È fatta. Siamo campioni olimpici. La realizzazione di un sogno, battere i norvegesi, per giunta a casa loro, nel giorno più importante.
Sono il primo a gettarmi in pista per abbracciare Silvio. Un momento che non dimenticherò mai, ripreso dal lungometraggio che ha celebrato la gara, splendido dal punto di vista non solo strettamente sportivo, ma anche umano, poco tempo prima avevo perso mio padre e la stessa sorte era toccata a Ulvang.
Effettivamente sembra un romanzo, raccontato così, ma era la realtà. Non tutti capiscono cosa c’è dietro un’impresa di quel genere. Passano gli anni, ma non i ricordi».
Albarello: «Da direttore tecnico ho provato a insegnare agli atleti la cultura del lavoro»
Per lei, successivamente ancora un’esperienza come direttore agonistico della Nazionale.
«Da direttore agonistico ho cercato di stabilire un feeling con gli atleti, come quando correvo, seppure, ovviamente, con un approccio diverso dovuto al ruolo. Se gli atleti stanno bene, i risultati arrivano.
Ho provato a insegnare loro la cultura del lavoro. Purtroppo il fondo non ha la visibilità che meriterebbe.
Quando abbiamo vinto la medaglia d’oro a Torino 2006, la notizia è stata presto oscurata dal titolo mondiale di calcio degli azzurri. Ma c’è dell’altro».
Albarello: «In Italia non abbiamo pazienza, vogliamo tutto subito e facciamo il male dei giovani»
Ci spieghi.
«Da un paio di anni, il fondo in Italia è in caduta libera. Oggi non siamo più competitivi negli appuntamenti che contano, speriamo che una svolta avvenga con Milano-Cortina 2026.
Purtroppo non sono chiari alcuni concetti. Il primo sta nel fatto che la nostra specialità significa tanta fatica e poco divertimento. È un percorso lungo e impegnativo, punto. Il secondo concetto è la mentalità del “tutto e subito”. Si creano grandi aspettative sui giovani, si fanno specializzare precocemente gli atleti, che così si sentono arrivati e invece non lo sono. Conta l’immediatezza del risultato che, ovviamente, non arriva.
Il fondo prevede e richiede tempo, maturazione, senza affrettare le cose.
In Norvegia, per esempio, nelle gare delle categorie giovanili non esistono premi. Al centro di un progetto serio e credibile deve esserci l’obiettivo del ragazzo, non quello dell’allenatore.
Il tempo che passa è quello che fa crescere i giovani e che fa loro acquisire consapevolezza nei propri mezzi. E, così, a casa nostra, tanti talenti che si affacciano alla disciplina con voglia, si perdono per strada. A cascata, si disamorano gli sponsor, le televisioni e si innesta una spirale negativa che penalizza tutto il movimento.
Adesso sono componente della commissione giovani per lo sci da fondo, un ruolo che mi appassiona e nel quale cerco di rendermi utile, mettendo a disposizione la mia esperienza».
(enrico formento dojot)