Un occhio aostano sull’universo invisibile: Simona Vegetti nel team che ha scoperto un corpo celeste da record
Sovrapposizione dell'emissione infrarossa (in bianco e nero) con l'emissione radio (a colori) dell’arco gravitazionale del sistema JVAS B1938+666. L'oggetto oscuro e di piccola massa si trova nel vuoto nella parte luminosa dell'arco sul lato destro. Crediti: Keck/EVN/GBT/VLBA/John McKean
Astronomia
di Paolo Ciambi  
il 10/10/2025

Un occhio aostano sull’universo invisibile: Simona Vegetti nel team che ha scoperto un corpo celeste da record

Un team internazionale di scienziati ha individuato il più piccolo oggetto celeste mai scoperto a distanze cosmologiche, tra loro anche l'astrofisica aostana Simona Vegetti

Un’immagine così nitida da rivelare l’invisibile. Un team internazionale di scienziati, di cui fa parte l’astrofisica di origini aostane Simona Vegetti, ha ottenuto due importanti risultati, pubblicati in altrettanti articoli sulle prestigiose riviste scientifiche Nature Astronomy e Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

Sfruttando la potenza di una rete mondiale di radiotelescopi, gli scienziati hanno catturato l’immagine di un arco gravitazionale più definita mai osservata con questa tecnica e, grazie a essa, hanno individuato il più piccolo oggetto celeste mai scoperto a distanze cosmologiche unicamente attraverso la sua forza di gravità.

Una lente d’ingrandimento cosmica

Il fenomeno alla base della scoperta è la lente gravitazionale, una diretta conseguenza della teoria della Relatività Generale di Einstein.

Secondo questa teoria, una massa molto grande, come quella di una galassia, curva lo spazio-tempo circostante. La luce proveniente da un oggetto posto esattamente dietro questa massa viene quindi deviata, come se passasse attraverso una lente ottica, producendo immagini multiple, archi o persino anelli luminosi.

Immagine in falsi colori dell’arco gravitazionale del sistema JVAS B1938+666 osservato alla frequenza radio di 1,7 GHz con la tecnica VLBI. Crediti: J. P. McKean et al. / MNRAS 2025

Lo studio di queste immagini distorte è oggi uno strumento potentissimo per indagare la materia oscura, che non emette luce ma tradisce la sua presenza attraverso gli effetti gravitazionali. In questo caso, il sistema osservato, noto come JVAS B1938+666, è un esempio da manuale: una galassia ellittica massiccia in primo piano, distante 6,5 miliardi di anni luce, agisce da “lente” per la radiazione emessa da una galassia ancora più remota, a oltre 11 miliardi di anni luce.

Per ottenere un’immagine di una precisione mai raggiunta prima, il team ha utilizzato la tecnica della VLBI (Very Long Baseline Interferometry). Non si tratta di un singolo strumento, ma di una rete globale composta da 22 radiotelescopi, tra cui l’European VLBI Network, il Very Long Baseline Array americano e il Green Bank Telescope negli Stati Uniti. Fra di essi, anche la parabola “Gavril Grueff” di Medicina (Bologna), gestita dall’INAF, l’Istituto Nazionale di Astrofisica. I dati raccolti da queste antenne sparse per il pianeta sono stati poi combinati da un supercomputer presso il JIVE (Joint Institute for VLBI-ERIC) in Olanda.

Questa tecnica simula un’unica, gigantesca antenna virtuale con un diametro pari alla distanza tra i telescopi più lontani. Ciò consente di raggiungere un dettaglio estremo nelle osservazioni, pari a un millesimo di secondo d’arco. Per dare un’idea, a quella distanza cosmologica equivale a distinguere strutture grandi appena una trentina di anni luce, cioè una decina di volte la distanza che separa il Sole dalla sua stella più vicina, Proxima Centauri.

Immagine in falsi colori della sorgente compatta con massa pari a 1 milione di soli, identificata nello studio pubblicato su Nature Astronomy. Crediti: D. M. Powell, et al. / Nature Astronomy

L’anomalia che svela il mistero

Le 14 ore di osservazioni condotte alla frequenza radio di 1,7 GHz sono state un’impresa complessa. Come spiega la ricercatrice INAF Cristiana Spingola, co-autrice dello studio, «questo articolo è il primo di una serie e presenta le osservazioni VLBI, che sono state particolarmente complesse. Si tratta di un aspetto cruciale di questo lavoro: abbiamo utilizzato 22 antenne, il che ha richiesto un notevole impegno sia nella correlazione dei dati sia nella calibrazione».

Lo sforzo ha dato i suoi frutti, rivelando un arco gravitazionale sottilissimo e quasi completo, il più definito mai osservato con questa tecnica. John McKean, che ha coordinato le osservazioni ed è il primo autore dell’articolo scientifico, racconta: «Fin dalla prima immagine ad alta risoluzione, abbiamo immediatamente notato una certa anomalia nell’arco, segno rivelatore che eravamo sulla buona strada. Solo la presenza di un altro piccolo accumulo di massa tra noi e la radiogalassia lontana avrebbe potuto causare questo effetto».

È a questo punto che subentra il contributo di Simona Vegetti, leader di un gruppo di ricerca al Max Planck Institute for Astrophysics. L’enorme mole di dati richiedeva un’analisi del tutto nuova. «I dati sono così grandi e complessi che abbiamo dovuto sviluppare nuovi approcci numerici per modellarli», spiega Vegetti nel comunicato stampa diffuso dall’Istituto Nazionale di Astrofisica.

«Non è stato semplice, perché non era mai stato fatto prima». Grazie a questi algoritmi avanzati, eseguiti su supercomputer, è stato possibile non solo ricostruire la vera morfologia della galassia sullo sfondo – una radiosorgente estesa per circa 2000 anni luce, con due regioni di emissione radio poste ai lati della galassia ospite, prive di un nucleo centrale evidente e caratterizzate da zone brillanti ai bordi – ma soprattutto isolare la causa dell’anomalia. Si trattava della firma gravitazionale di un oggetto con una massa di circa un milione di Soli, un valore molto piccolo rispetto ai mille miliardi tipici di una galassia.

Mai prima d’ora era stato possibile identificare un corpo celeste di massa così ridotta a una distanza cosmologica così grande.

Un percorso scientifico iniziato ad Aosta

Simona Vegetti

Il contributo di Simona Vegetti a questa scoperta ha le radici in un percorso di iniziato in Valle d’Aosta.

Dopo il diploma al Liceo Linguistico Bérard, è stata la “sfida di risolvere problemi nuovi e difficili” a spingerla verso la facoltà di fisica a Torino, come ci aveva confidato due anni fa in una intervista su Gazzetta Matin. Da lì, la scelta di una carriera internazionale l’ha portata a un dottorato a Groningen, in Olanda, e successivamente a un post-doc al MIT di Boston. Proprio al MIT, nel 2012, ha guidato un team alla scoperta di una galassia nana di materia oscura, guadagnandosi il ruolo di primo autore su un articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature.

Dal 2013 lavora al Max Planck Institute for Astrophysics in Germania, dove oggi è a capo di un gruppo di ricerca all’interno del “Lise Meitner Excellence Program”, dedicato a supportare scienziate di grande talento. Questo nuovo, eccezionale risultato si inserisce quindi nel suo obiettivo scientifico di lungo corso.

Come lei stessa ci aveva raccontato: «Fin dal dottorato, il mio progetto a lungo termine è quello di testare vari modelli di materia oscura con il lensing gravitazionale».

(paolo ciambi)

 

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