Coronavirus, commovente racconto di una infermiera: ormai vedo i miei bimbi attraverso un vetro
Il racconto della donna che lavora in una microcomunità della bassa Valle
«Io sono un’infermiera e sono fiera di esserlo, soprattutto in questo momento di strazio, paura e stanchezza. Anche quando la sera arrivo a casa e guardo i miei figli attraverso il vetro di una finestra. Mi chiedono un abbraccio, ma oggi non si può». Parla un’infermiera (chiede l’anonimato) che presta servizio in una microcomunità della bassa Valle, «dove, per fortuna, al momento non risultano persone positive al Covid-19» – spiega a Gazzetta Matin.
Tuttavia, «nella struttura per anziani il virus lo stiamo sfiorando – racconta l’infermiera -. La paura è una costante tra di noi. Lo si vede nei volti sotto le mascherine strette, negli occhi che si intravedono dietro agli occhiali appannati e nell’accuratezza che usiamo durante la vestizione».
Secondo quanto riferisce la donna poi, «i nostri pazienti sono soli, nessuno può fargli visita. Alternano momenti di pianto a momenti di risate dopo che insieme cantiamo un po’ o dopo una battuta detta per sdrammatizzare. Noi siamo lì per loro, solo per loro. Per cui stiamo continuando ad abbellire le mura per Pasqua. Poi quando abbiamo un momento libero ci dedichiamo alle videochiamate, così che gli anziani riescano a parlare con i parenti. Dovrebbe vederli, sono entusiasti».
Sfortunatamente però, nonostante il divieto di accesso alle micro alcune strutture per anziani – in Valle così come in altre zone dello Stivale – si sono trasformate in piccoli focolai di Coronavirus. «Con i colleghi parliamo spesso della situazione che si è venuta a creare in alcune micro come in quella di Pontey – ammette l’infermiera -. I pazienti sono molto fragili, per cui una situazione del genere preoccupa tutti. Ogni giorno, ogni ora, speriamo che nessuno si ammali e che nessuno di noi operatori possa trasformarsi in un vettore», cioè che nessun dipendente porti inconsapevolmente il virus all’interno della struttura. E gli operatori, stando al racconto della donna, si sono organizzati «per essere sempre più attenti anche fuori dall’orario di lavoro. Ad esempio andiamo a fare la spesa il meno possibile. Qualche volta sono andata al supermercato, ma vedendo che c’era coda ho preferito riprovare in un altro momento».
Ma il timore non è solo quello di poter portare il nemico invisibile all’interno della struttura. C’è infatti anche «la paura di poterlo portare a casa e, magari, di attaccarlo ai figli. Da appena dopo le vacanze di carnevale in casa siamo rimasti io e mio marito – continua l’infermiera -. I nostri figli (che hanno entrambi una decina di anni, ndr) stanno con i nonni; non li abbracciamo da tanto. I miei genitori abitano nell’alloggio sotto al mio, quindi quando torno a casa riesco a parlare un attimo con i bimbi attraverso il vetro di una finestra. Loro mi chiedono un abbraccio, ma ora non si può. Gli dico: ‘Godetevi i nonni adesso, che domani vi abbraccerò forte, vi bacerò e vi spiegherò cosa vuol dire essere felici. Abbiamo fatto questa scelta durissima per tutelare la loro salute».
(federico donato)